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martedì 7 ottobre 2014

Tfr, l’equivoco del problema liquidità per le aziende

La proposta di trasferimento (parziale o totale) del Trattamento di Fine Rapporto (Tfr) in busta paga ha scatenato una bagarre di pareri contrastanti, cosa che tipicamente accade (in Italia e nel Mondo) quando vanno a incrociarsi tematiche al mondo del lavoro e dei soldi da esso derivati.
Tralasciando per un attimo filosofia e battaglie di parte, vorremmo soffermarci su un elemento portante della maggioranza delle recenti discussioni: la questione liquidità.
Stando a quanto espresso da diversi appartenenti al partito dei “contrari”, la riforma comporterebbe un evidente problema per le aziende, costrette a versare mensilmente sullo stipendio dei dipendenti introiti altrimenti presenti sì in bilancio, ma sotto forma di fondo accantonamento (senza quindi la necessità di fare rientrare tale cifra in logiche di “cassa”). Un appunto che sembra ripercorrere in parte il comunicato rilasciato da Federconsumatori, tramite le dichiarazoni di Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti: 
“La trovata di inserire parte del Tfr in busta paga non ci convince affatto. Presenta diverse criticità sotto molteplici punti di vista. In primo luogo per quanto riguarda la tassazione: in che modo verrebbe tassato tale importo? Sarebbe soggetto alla stessa elevata tassazione sui salari e ciò è improponibile. Si tratterebbe di una vera assurdità e, a conti fatti, vorrebbe dire decurtare pesantemente il Tfr dei lavoratori.Un'operazione simile, tra l'altro, converrebbe molto allo Stato e al Governo: applicare lo stesso livello di tassazione delle buste paga comporterebbe, infatti, un aumento degli introiti fiscali di oltre 5 miliardi di Euro. Un'altra rilevante criticità riguarda, inoltre, la fattibilità di tale operazione. Molte piccole e medie imprese non sarebbero mai in grado di sostenerne i costi e si darebbe così l'ennesimo colpo di spalla alla già precaria situazione dell'economia interna. Infine, non certo meno importante, sicuramente tutta questa operazione contribuirebbe a diminuire il peso nella contrattazione, dal momento le retribuzioni risulterebbero di fatto aumentate, anche se in realtà non lo sono, ma contengono semplicemente soldi che già appartengono ai lavoratori. Si tratta perciò di un'operazione insostenibile e discutibile sotto molti punti di vista, che maschera l'ennesimo sistema per ricavare introiti da parte dello Stato”. 
Se su tassazione e finalità la questione appare ancora in divenire, più definita appare la questione sull’impatto in termini di liquidità aziendale. Una situazione che sembrerebbe stonare non poco con le convinzioni di Federconsumatori; già, perché la liquidità non verrà toccata. Per lo meno quella aziendale.
Se la notizia deriva direttamente dalla voce del viceministro dell'Economia, Enrico Morando “se faremo l'intervento sul Tfr non provocherà nessuna riduzione della liquidità delle aziende e dal Tfr dei lavoratori non sarà prelevato un euro in più di quello che viene prelevato oggi” a fare maggiore chiarezza sulla questione ci pensa l’analisi dell’esperto di politiche economiche e del lavoro, Stefano Patriarca, che ne ha recentemente scritto sul sito www.lavoce.info, ripreso poi da Il Sole 24 Ore, evidenziando la “ricaduta” del tema liquidità su un nuovo attore. Stiamo parlando delle banche.
“In pratica la quota di liquidazione lorda maturata tutti gli anni verrebbe trasferita (totalmente o al 50%) in busta paga in soluzione unica, per i lavoratori che scelgono questa soluzione, tramite un credito bancario. Le imprese continuerebbero ad accantonare il Tfr come attualmente previsto (in bilancio, versandolo all'Inps o a un fondo di previdenza a seconda della dimensione o delle scelte già fatte dai propri dipendenti) e pagherebbero l'importo della liquidazione al momento della chiusura del rapporto di lavoro non più al dipendente, che lo ha già incassato, ma alla banca (o al fondo bancario) che ha anticipato la liquidità. In altre parole non verrebbe toccato l'articolo 2120 del Codice civile che "intesta" alle imprese il debito legato all'accantonamento di questo "salario differito" dei dipendenti. Semplicemente cambierebbe il creditore finale: non più il lavoratore ma le banche. Le aziende fino a 50 dipendenti continuerebbero ad accantonare il Tfr con la rivalutazione prevista dalla legge (l'1,5% più lo 0,75% dell'inflazione) per tutti i dipendenti che non hanno optato per i fondi pensione. E a quel costo lo pagherebbero alle banche al momento di cessazione del rapporto di lavoro. Per gli istituti di credito (da soli o con la Cdp) il prestito sarebbe "risk free" poiché, in caso d'insolvenza del datore di lavoro, potrebbero ricorrere allo storico "fondo assicurativo" Inps alimentato con un contributo dello 0,2% a carico dei datori. La stessa logica si applicherebbe per le aziende con più di 50 dipendenti che già versano il Tfr al fondo di tesoreria gestito dall'Inps: l'anticipo bancario nulla muterebbe sui flussi imprese-Inps e le banche incasserebbero la liquidazione maturata, a fine rapporto di lavoro, dall'Inps”.
E se così fosse, almeno su un punto, si potrebbe finalmente posare l’ascia da guerra. In attesa di scannarsi sul prossimo.

Fonte: ProfessioneFinanza


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