A proposito del preannunciato aumento delle tasse sulle
rendite finanziarie, siamo stati quasi preveggenti.
Già in un precedente articolo avevamo ipotizzato che per
tagliare del 10% l'Irap, considerati gli ordini di grandezza del tutto
asimmetrici e inconciliabili, sarebbe stato necessario aumentare del 30% la
tassazione sulle rendite finanziarie. Ed ecco giungere, puntuale, la decisione
del Governo che qualche giorno fa, per bocca del Primo
Ministro, ha annunciato esattamente quanto avevamo previsto, precisando che
saranno esclusi dall'aumento i titoli di Stato e i conti deposito, che rimarranno tassati
rispettivamente al 12,5 e 20%; mentre la tassazione sulle rendite finanziarie derivanti da
altre tipologie di investimento aumentarà fino al 26%.
La scelta operata del Governo appare criticabile sotto molti punti
di vista; vediamo quali.
Vi è innanzitutto un questione di iniquità e la scelta del Governo contrasterebbe anche con i principi della Costituzione - artt. 47 e 53.
L'esigenza di assicurare al risparmio una particolare
protezione trova diretto riconoscimento nell'art. 47 della Costituzione. La
norma ha per oggetto al comma 1 il risparmio e il credito (“la Repubblica
incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina,
coordina e controlla l‟esercizio del credito”). Il risparmio
costituisce un valore costituzionale che lo Stato deve incoraggiare attivamente e tutelare contro ingiuste
riduzioni di ricchezza. Ne consegue che il risparmio deve essere
salvaguardato in tutte le sue forme. In realtà, ad oggi, il risparmio sta subendo da parte
dello Stato un vera e propria aggressione che, a parer di chi scrive,
contrasterebbe con il ruolo fondamentale che lo Stato dovrebbe avere nel
promuovere e tutelare il risparmio, avendo, questo, un'indispensabile valore sociale (sul tema leggi anche: "ASSALTO AI RISPARMI" e "VE LO STANNO DICENDO IN TUTTI I MODI") . Uno Stato, come quello italiano,
che tassa i risparmi a livelli altissimi, con le modalità distruttive poste in
essere, viene meno agli obblighi imposti dalla Costituzione, che attribuiscono
alla Repubblica il dovere di incoraggiare e tutelare il risparmio.
Veniamo all'art.53 della Costituzione, a parer di chi
scrive, anch'esso violato dal sistema impositivo che grava sui risparmi.
Viene sancito che:
"Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in
ragione della loro capacità contributiva.Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività."
Criteri di progressività, quindi.
Inesistenti nell'ambito
della tassazione del risparmio. Anzi, ad essere precisi, la volontà del governo di
voler aumentare al 26% l'imposizione fiscale sulle rendite derivanti da alcune
tipologie di investimento, oltre che accrescere le distorsioni che vedremo tra
breve, amplifica l'asimmetria rispetto al dettato costituzionale.
Un piccolo esempio potrà chiarire questo aspetto.
Come noto i risparmi scontano due tipologie di imposte (ci
sarebbe anche la Tobin Tax e l'Ivafe, ma lasciamo stare). La prima è l'imposta
di bollo (patrimoniale) dello 0,20% strutturale che grava annualmente sul
patrimonio mobiliare posseduto. Questa imposta, assai invasiva, non ha alcun
carattere di progressività. La progressività è inesistente anche per l'altra
imposta che grava sugli interessi e sui capital gain, che è l'Imposta
sostitutiva. Questa è prevista al 12,5% per i titoli di stato e per i buoni
postali; mentre è al 20% per i conti deposito e per tutte le altre tipologie di
investimento (obbligazioni, azioni, fondi ecc). Come dicevamo in aperture,
quest'ultima imposta, stando a quanto
annunciato dal Primo Ministro qualche giorno fa, dovrebbe essere aumentata al
26%, riconoscendo, tuttavia, un carattere privilegiato ai conti deposito che
rimarrebbero tassati al 20% (?). Questo trattamento di favore riconosciuto ai conti
deposito sembrerebbe essere stato confermato anche dal Ministro Padoan,
anche se qualche sospetto rimane, per i motivi che a breve analizzeremo.
Arrivati a questo punto, immaginiamo di disporre di un
piccolo risparmio, ad esempio 20 mila euro, investiti in un
obbligazione che rende il 2% annuo. A fine anno si sarà riscossa una
cedola annua lorda di 400 euro. Ma alla fine della fiera, tra imposta di bollo
(0,2% su 20 mila = 40 euro) e ritenuta fiscale sugli interessi (26% su 400
euro= 104), rimangono appena 256 euro. Quindi si subisce una tassazione del
36%. Tantissimo!
Se invece si dispone di un milione di euro investiti
sui BTP che rendono il 4%, a fine anno ci si porta a casa 40.000 euro lordi. A
questo importo va tolto lo 0,2% di imposta di bollo sul patrimonio (2000 euro)
e la ritenuta fiscale del 12,5% sugli interessi (altri 5000 euro). Quindi
rimangono in tasca 33000 euro netti. Per cui si subisce una tassazione di
appena il 17,5%, contro il 36% del caso precedente. Cioè 20 punti meno.
Come potete osservare, nel caso portato ad esempio, non
esiste alcuna progressività di imposizione, tant'è che chi dispone di un
piccolo risparmio, sconta un imposizione fiscale percentualmente superiore
rispetto a chi dispone di un patrimonio considerevole. Questo è reso possibile
perché entrambe le imposte che gravano sui risparmi non assolvono a criteri di
progressività, peraltro costituzionalmente previsti. C'è da dire che ad
aggravare la disparità di trattamento subentra anche il trattamento fiscale
agevolato (12,5%) previsto per i titoli di stato e per i buoni postali.
Il tema che la sinistra italiana offre in pasto al proprio
elettorato è quello secondo il quale sarebbe giusto tassare il risparmio al
fine di recuperare risorse da destinare alla riduzione del costo del lavoro.
Cosa peraltro non vera, visti gli ordini di grandezza del tutto inconciliabili.
Infatti, il gettito prodotto dalla tassazione dei redditi di lavoro dipendente
ammonta a circa 90 miliardi di euro annui; mentre quello derivante dalla
tassazione delle rendite è poco più di 11 miliardi di euro. Grandezze
assolutamente inconciliabili.
Già in un precedente articolo avevamo dimostrato che il
risparmio è già ampiamente più tassato rispetto ai redditi di lavoro
dipendente. In questo modo, contrariamente a quello che la sinistra intenderebbe
fare, attribuendo dei privilegi fiscali discriminatori a talune categorie di
investimento e in mancanza di una riforma complessiva sul trattamento fiscale
delle rendite finanziarie, si amplifica la disparità di trattamento e si
accresce la disuguaglianza tra i percipienti di grandi rendite finanziarie e i
piccoli risparmiatori.
Come si sarebbe potuto superare questo sistema impositivo?
Sarebbe stato sufficiente tassare queste tipologie di reddito attraverso la
dichiarazione dei redditi, con un sistema impositivo progressivo ad aliquota
marginale. Ma, a parer di chi scrive, in maniera separa rispetto all'irpef, al
fine di evitare il cumulo dei redditi. Anche perché, essendo il risparmio
accumulato in età lavorativa, è evidente che i flussi reddituali che lo hanno
determinato hanno già scontato un'imposizione fiscale tutt'altro che leggera.
In questo modo si sarebbe potuto creare un sistema
impositivo non discriminatorio al punto da poter evitare trattamenti
fiscali di favore per talune tipologie di investimento, una maggiore equità e
certamente sarebbe stato più aderente allo spirito del dettato costituzionale.
Ad aggravare la situazione sopra descritta interviene anche
un ulteriore aspetto di non poco conto e assai distorsivo.
Ossia che lo Stato, attribuendo un privilegio alle rendite
derivanti dall'investimento in titoli di stato - che si sostanzia in un livello di tassazione più agevolato e
discriminatorio- si pone in competizione con il mercato in modo
arrogante, ingiusto e distruttivo. Ingiusto perché, in questo modo,
è evidente che intenda attrarre i risparmiatori nell'investimento in titoli di
Stato, grazie ad un abuso di posizione dominante e alla sua autorità che
gli consente di attribuire ai titoli di Stato un trattamento fiscale di favore;
distruttivo perché, ponendosi in concorrenza (sleale) con altre tipologie di
investimento, non fa altro che distrarre masse di risparmio da quei soggetti
deputati al finanziamento alle imprese e famiglie.
Ecco che le banche, al fine di raccogliere denaro da
prestare successivamente a famiglie ed imprese, dovranno arginare la concorrenza
esercita dallo Stato offrendo rendimenti maggiori ai risparmiatori, al fine di
riequilibrare la convenienza nell'investimento in obbligazioni bancarie,
compressa da fattori fiscali discriminatori. Quindi un maggior costo della raccolta
per il sistema bancario, che verrà ribaltato su imprese e famiglie.
L'arroganza
che lo Stato esprime attraverso questo modus operandi è reso ancor più grave se
si considera il credit crunch di cui è vittima ormai da diversi anni il sistema
economico italiano, che rischia di aggravarsi.
Vi sono, poi, ulteriori fattori
che inducono a ritenere che la scelta di aumentare la tassazione su talune
tipologie di rendite finanziarie, sia una scelta censurabile e
scellerata.
In questi anni di crisi il risparmio è stato anche un grande
ammortizzatore sociale, esente da costi per il contribuente. Chi ha perso il
lavoro o chi ha visto diminuire il reddito per effetto della crisi, magari ha
potuto sopperire o integrare -almeno parzialmente- il reddito venuto meno
proprio attingendo al risparmio, o agli interessi percepiti. Aumentando la
tassazione non si fa altro che comprimere ulteriormente la possibilità di
spesa delle famiglie. Meno reddito, corrisponde minore possibilità di spesa.
Senza trascurare poi il fatto che l'intenzione del governo
sarebbe quella di aumentare la tassazione sulle rendite al fine di recuperare
risorse per abbattere strutturalmente (si spera) l'Irap sulle imprese di circa
2,5 miliardi di euro.
Al netto del fatto che si sarebbero potute recuperare
risorse ben più significative incidendo sull'enorme massa di sussidi erogati
alle imprese in modo inopportuno -per lo più per garantire privilegi a
consorterie di potere, politiche e ad
interessi lobbistici- rimane il fatto, non del tutto trascurabile, che il gettito derivante da questo tipo di
imposizioni è assai variabile ed aleatorio. Basta che i mercati scendano
anziché salire, ed ecco che il gettito si contrae anziché aumentare.
E questo è
uno dei motivi per i quali sono abbastanza scettico sul fatto che non
ritocchino (al rialzo) anche la tassazione sui conti deposito. Il
gettito
derivante da questo tipo di imposizione, è evidente, offre un gettito
strutturalmente più stabile, idoneo a sopperire la contrazione degli
incassi in
momenti di mercati sfavorevoli. In buona sostanza, costituirebbe un
cuscinetto
di riserva aggiuntivo.
Bisognerebbe anche aggiungere che la tassazione di favore
riconosciuta sia ai titoli di Stato che ai buoni postali emessi dalla Cassa
Depositi e Prestitti, è probabile che possa celare insidie non del tutto note alla maggior
parte dei risparmiatori. Infatti, già da gennaio 2013, i titoli di debito
che lo stato emette con scadenza superiore ai 12 mesi, vengono emessi in
vigenza delle Clausole di Azione Collettiva, che consentono allo Stato Italiano
di modificare le caratteristiche dell'emissione (sul tema leggi: "L'ITALIA PUO' FALLIRE, ORA ANCHE PER LEGGE") Ad esempio, per effetto
delle CAC, lo Stato italiano potrebbe modificare gli interessi corrisposti, la
scadenza del titolo (differendola) o addirittura decurtare il capitale. E'
evidente che esercitare nei confronti dei risparmiatori retail forme
incentivanti l'investimenti proposto (quale, appunto, un minor onere fiscale), senza peraltro
rendere edotto il risparmiatore sulle possibili conseguenze in caso di
ristrutturazione del debito pubblico, assume i contorni di una vera e propria
aggressione al risparmio e alla buonafede della maggior parte dei risparmiatori.
Tanto più se si considera che, nel corso degli ultimi anni, le possibilità che
si giunga a qualche forma di ristrutturazione del debito pubblico (infliggendo
perdite in capo ai risparmiatori) sono aumentate in modo esponenziale.
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